mercoledì 2 settembre 2009

Storia della democrazia

Siamo giunti alla fine del nostro percorso. Dopo aver illustrato l’ideologia della democrazia, comparando DD e DR, così da avere ben chiaro in che cosa e in che misura i due sistemi differiscono, dovremmo ora essere in grado di gustarci appieno la storia di questa straordinaria idea. Pertanto, in trasgressione agli schemi tradizionali, che descrivono la storia dell’oggetto dibattuto prima ancora di iniziarne la trattazione, io faccio esattamente il contrario e vi propongo la storia della DD alla fine del percorso.

1. Preistoria
In epoca preistorica gli uomini vivono in piccoli gruppi di tipo familiare. I loro rapporti sono regolati dal principio di forza e dai legami parentali e di vicinato, che trovano espressione nell’ordine gerarchico e nella solidarietà, nell’autorità paterna e nell’attrazione emotiva, nell’animosità e nella benevolenza, raggiungendo un equilibrio non sempre perfetto, ma nel complesso funzionale. È inutile cercare in questa fase esempi di democrazia, né di qualunque altro tipo di ordinamento politico strutturato.
Questo clima cambia nel momento in cui l’uomo supera i limiti della famiglia e crea gruppi estesi di tipo tribale. La tribù deve la sua coesione a fattori di tipo culturale, che sono prevalentemente di natura religiosa, ma non ha una ben definita struttura organizzativa, non dispone di apparati militari o paramilitari stabili, non ha istituzioni politiche e non conosce il blasone dell’aristocrazia, e nemmeno la condizione della povertà. Le sole figure autorevoli sono gli anziani e gli sciamani, mentre, di norma, la massima autorità è una qualche divinità tutelare, la cui volontà viene conosciuta attraverso la mediazione dello sciamano e può, dopo essere recepita dagli anziani, assumere valore di legge sacra. Più una tribù è numerosa e territorialmente estesa, più i legami parentali e di vicinato si indeboliscono, e più si deve ricorrere alla forza per dirimere i contrasti fra gli uomini. Quando lo scontro coinvolge intere tribù, l’uso della forza diventa devastante e, se non determina un genocidio, genera uno stato di insicurezza intollerabile, quello che Hobbes chiama homo homini lupus. È a questo punto che si avverte il bisogno della politica. Il passaggio dal non-politica alla politica, ossia dalla società tribale allo Stato, può essere colto adeguatamente solo attraverso uno studio della preistoria politica (cf. http://scuoladidemocrazia-preistoria.blogspot.com/).

2. Alba della storia
La politica entra nella storia dell’uomo pressappoco cinquemila anni fa, nel momento in cui l’uomo prende atto che, essendo la guerra molto dispendiosa, sia in termini economici che in termini di sofferenze e di vite umane, e non producendo condizioni di sicurezza stabili per le persone, essa non può essere l’unico mezzo per risolvere le controversie fra popolazioni. La famosa teoria di Clausewitz, che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi contiene certo una buona dose di verità, ma, almeno all’alba della storia, è ancora più vero il suo opposto, e cioè che la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. È quando si accorge che la guerra di tutti contro tutti è insostenibile che l’uomo ricorre alla politica, tenta cioè di ordinare la vita sociale secondo norme condivise, affidandosi a figure istituzionali dotate di autorità. Il modo in cui questo disegno politico viene elaborato cambia da popolo a popolo e da epoca ad epoca, rispecchiando la cultura e le credenze del momento.
Agli albori della storia, gli uomini sviluppano una cultura di tipo magico-religiosa e credono che i vincitori siano aiutati da qualche volontà divina, cui è inutile opporsi. Perciò i vinti si piegano davanti al condottiero vittorioso e accettano il suo dominio; talvolta lo accreditano anche di una presunta filiazione divina e lo elevano a re legittimo. A sua volta, la regalità conferisce a chi ne è portatore uno speciale status sociale, che può essere trasmesso, automaticamente, ai parenti o, per investitura, a chiunque. Si crea in tal modo una classe aristocratica per nascita o per cooptazione. In altri termini, re si nasce per volere divino, nobili si diventa per volere del re.
Abitualmente la gente prende atto e accetta quell’autorità che sembra provenire dagli dèi, il che spesso è sufficiente per porre fine alle ostilità e dare inizio ad un periodo di pace. Ciò però non vuol dire che adesso la forza non serve più. In realtà, la forza continua a svolgere un ruolo primario, solo che adesso è affidata ad un legittimo re, da cui ci si aspetta che continui a governare per il bene della sua gente, che combatta per ingrandire il regno che il dio gli ha dato o per difenderne i confini, e che dimostri in tutte le situazioni difficili in cui si verrà a trovare che non è un impostore, ma che effettivamente gode del favore divino. Il testo probatorio è il campo di battaglia: finché la buona sorte lo assisterà, egli potrà esercitare un potere pressoché assoluto e la sua volontà sarà legge, e potrà anche trasmettere il suo status ai propri figli e parteciparlo ai propri amici e parenti.
Dunque, agli inizi della storia, la politica è ordinata dall’alto e dall’esterno, e la sovranità appartiene ad un dio, che la esercita per mezzo di un suo rappresentante umano. È l’epoca dell’autocrazia, ossia del governo assoluto di uno, che si proclama, ed è ritenuto, eletto da un dio e superiore per nascita a tutti gli altri uomini, i sudditi. “Autocrazia – scrive Sartori – è auto investitura, è proclamarsi capo da sé, oppure essere capo per diritto ereditario” (2008: 36). In alternativa all’autocrazia monarchica viene praticata l’oligarchia, ossia il governo di poche famiglie, che si fonda su principi analoghi.
In conclusione, monarchia e oligarchia si affermano prevalentemente nelle grandi popolazioni sedentarie in risposta alle lotte endemiche tra le famiglie per il possesso della terra e alla necessità di organizzare la difesa da possibili attacchi esterni. Dovranno trascorrere più di duemila anni prima che l’uomo sia in grado di emanciparsi dai pregiudizi religiosi e riesca a concepire un governo che provenga dal «popolo», ossia dalle numerose famiglie non-nobili: la democrazia.

3. Mondo greco-romano
Le prime significative tracce di democrazia risalgono al VII-VI secolo a.C. e le troviamo in Fenicia e a Sparta, ma l’esempio più compiuto e noto ce lo offre Atene nel V-IV secolo a.C.. Per quel che sappiamo, è qui che, per la prima volta, l’idea democratica viene elaborata in modo cosciente e fatta oggetto di discussione e di analisi comparativa con altre forme di governo. È qui che, per la prima volta, tutti i cittadini sono abilitati alla partecipazione politica e, riuniti in assemblea, possono esercitare una sovranità effettiva. È qui che si realizza la società paritaria, dove si pratica l’isonomia (uguaglianza di fronte alla legge) e il sorteggio delle cariche pubbliche. Il periodo è quello che segue alla vittoriosa guerra contro i Persiani, alla quale hanno contribuito in modo determinante uomini di umili condizioni sociali, i teti, che ora reclamano il diritto di partecipare alle decisioni di interesse generale. Nel momento in cui le famiglie aristocratiche dominanti vedono nell’apporto di costoro un fattore prezioso e perfino necessario della propria politica, si creano i presupposti per la nascita di una formula politica nuova, che è vista dall’opinione corrente come un’autentica rivoluzione, la democrazia appunto, la quale può essere considerata come il risultato della combinazione di due elementi: uno teorico, l’altro pratico. L’elemento teorico prende origine dalla cultura razionale e «laica» che si va affermando in Grecia a partire dal VI secolo e consiste nell’idea che l’ordine sociale origina non dall’alto, come si credeva in passato, ma dal basso, non da un dio ma dall’uomo. L’elemento pratico è una conseguenza del primo, ed è legato alla necessità di indicare concretamente i soggetti da cui dovrà originare l’ordine sociale. Se non è un dio che conferisce il potere politico, ma l’uomo, resta da spiegare in che modo e su che basi convenga che l’uomo distribuisca il potere.
Questo problema si rivela di non facile soluzione. Infatti, una volta esclusa l’elezione divina e la nobiltà di nascita, i greci scoprono che è impossibile individuare differenze qualitative tali da poter affermare che quest’uomo è superiore (o inferiore) a quest’altro, se non in via temporanea e contingente. L’esperienza insegna loro che il futuro degli individui dipende spesso dagli umori mutevoli della fortuna e che si può passare dalle stelle alle stalle, o viceversa, e pertanto non ci sono ragioni per non elevare «tutti» gli uomini a soggetti politici. Ma ciò comporta ulteriori difficoltà, che sono legate in parte al gran numero delle persone che dovrebbero essere chiamate ad esprimere l’azione politica, in parte all’improbabilità che una persona di infimo rango possa proficuamente svolgere un ruolo politico. A queste difficoltà i primi legislatori ateniesi (Dracone e Solone) trovano una soluzione nel censo e includono nel novero dei soggetti politici solo le persone più benestanti. Il coinvolgimento dei teti è opera dei riformatori democratici (Efialte e Clistene), i quali introducono una formula politica nuova, che Erodoto chiamerà democrazia, per indicare il governo del demos, che si propone come alternativa al vecchio sistema monarchico/oligarchico.
Da qui in avanti, le difficoltà che si incontreranno nel tentativo di spiegare e definire la democrazia deriveranno dall’aver voluto tradurre demos con «popolo», un termine inadeguato e fuorviante, che può indicare la totalità dei membri di una comunità o una parte di essi o una semplice idea astratta, insomma, tutto e niente. Ora, sappiamo che, per gli antichi greci, il termine demos si applicava ai soli cittadini di sesso maschile, che costituivano circa un quinto dell’intera popolazione ed erano «molti» e se raffrontati all’«uno» della monarchia e ai «pochi» dell’oligarchia. Ne consegue che la democrazia è concepita dai greci come governo di «molti» uomini, i cosiddetti cittadini, che sono portatori della pienezza dei diritti politici ed esercitano il potere sovrano all’interno della polis. Sono chiamati cittadini per distinguerli dagli altri abitanti (schiavi, stranieri, donne e bambini), ai quali quegli stessi diritti sono negati. Essi costituivano certamente un grande numero («molti»), ma potevano anche essere la «maggioranza» se confrontati ai maschi adulti stranieri (i meteci). Ed è probabilmente in quest’ottica che Pericle può ricondurre la democraticità di Atene al fatto che la città “è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza” (Tucidide II, 37).
Sembra tutto chiaro, ma così non è. Non tutti gli Ateniesi, infatti, traducono allo stesso modo i termini «molti» o «maggioranza». I democratici, infatti, ripetono con Pericle che i «molti» sono la totalità dei cittadini, ossia la maggioranza della popolazione. Alcuni aristocratici, invece, e con essi Platone, ragionano in un altro modo: l’assemblea dei cittadini è composta in maggioranza da persone prive di istruzione e di basso censo e, poiché le votazioni si svolgono secondo il principio «una testa, un voto», ne consegue che le decisioni vengono sempre prese dai cittadini di basso rango, dai poveri, che sono più numerosi e, dunque, di fatto, la democrazia è il governo dei poveri (Platone, Repubblica VIII, 557). Insomma, nell’Atene del V-IV secolo, il termine democrazia ha almeno tre distinti significati: il governo dei molti, il governo della maggioranza e il governo dei poveri. In ogni caso, tuttavia, essa si contrappone alla monarchia (governo di uno) e all’oligarchia (governo di pochi). Gli Ateniesi non si interrogano sulla necessità di rappresentanti eletti, né manifestano dubbi sulla praticabilità di un autogoverno di molti. Per loro esiste un solo tipo di democrazia, quella diretta, e le ridotte dimensioni fisiche e demografiche dell’Attica si prestano a questo nuovo modello politico senza grossi problemi.
La democrazia ateniese non funziona meno bene di altri sistemi politici coevi, come quelli egizio e persiano, a riprova del fatto che il sistema democratico non è meno valido di quello autocratico, ma ciò nonostante essa non sarà replicata in altre città e da altri popoli. Col tramonto di Atene, infatti, la democrazia verrà dimenticata, mentre monarchia e oligarchia riguadagneranno la totalità del campo e si imporranno come le forme di governo di maggior successo, verosimilmente perché è più facile esercitare il potere da parte di uno o di pochi piuttosto che di molti, anche se non mancheranno qua e là sprazzi di democrazia, ossia l’estensione dei diritti politici ad un’oligarchia allargata e ai rappresentanti della plebe, come durante la breve parentesi del periodo dei Gracchi (II sec. a.C.), nella Roma repubblicana.
Per il resto, troviamo solo società duali, ossia società in cui sono facilmente riconoscibili almeno due classi sociali nettamente distinte, sia per censo che per diritti, ricchi e poveri, nobili e popolani. Ne è un esempio l’Impero romano, dove il cittadino possiede alcuni diritti civili e giudiziari, come quello di far carriera o di appellarsi fino all’imperatore, ma è privo di diritti politici e non partecipa in alcun modo al governo dell’Impero, non sceglie i propri rappresentanti, né può opporsi al regime. Può invece chiedere «pane e divertimenti» e in ciò l’imperatore tende ad accontentarlo. Anche dopo l’estensione del diritto di cittadinanza operata da Caracalla, a Roma si possono facilmente distinguere cittadini di serie A e di serie B e il potere politico si riduce “di fatto a una competizione tra le famiglie socialmente più in vista” (MARCONE 2002: 38).

4. Medioevo
Con la diffusione del cristianesimo si rafforza l’idea, già peraltro diffusa, che la verità viene dall’alto e che si deve accettare per fede, e questo contribuisce a porre l’individuo in una condizione di rassegnata passività. Adesso l’autorità somma è la Bibbia e la pretesa dell’uomo di scoprire da sé le verità è considerata un grave peccato di superbia. Come conseguenza di questa mentalità, non solo si rende velleitaria un’eventuale rinascita della democrazia, ma si fa in modo che l’uomo abbandoni perfino le acquisizioni scientifiche degli antichi e regredisca ai tempi in cui la realtà era spiegata in termini esclusivamente religiosi. “Molti cristiani ricominciarono a credere che la Terra fosse piatta. Gli ospedali vennero chiusi, poiché i sacerdoti dicevano che le persone potevano guarire semplicemente pregando Dio. Fu proibito di discutere liberamente e si affermò una nuova visione della verità: era giusto solo ciò che concordava con quanto si leggeva nella Bibbia” (NEWTH 1998: 60). Purtroppo, anche presso gli Arabi, che pure esprimono la principale civiltà dopo la caduta dell’impero romano, prevale lo spirito religioso e la verità è fatta coincidere con quanto è scritto nel Corano, così che al singolo individuo rimane poco spazio per poter affermare la propria autonomia e partecipare responsabilmente alla politica. Solo a pochi viene riconosciuta la facoltà di pensare con la propria testa, ossia al re e alla sua ristretta cerchia di amici e parenti, che si ritiene ricevano la loro autorità direttamente da Dio, oltre che ai vescovi e agli imam, cui è attribuito il privilegio esclusivo di leggere e interpretare le Sacre Scritture. Il resto è plebaglia.
I medievali che, leggendo Aristotele, riscoprono la democrazia, non sono pronti culturalmente ad accettare questo sistema politico. Solo nelle comunità monastiche è diffusa la consuetudine di eleggere il Superiore. Per il resto, nel medioevo il destino delle persone appare segnato alla nascita e segue un ordine ritenuto naturale e immutabile, in virtù del quale il figlio ricalca le orme del padre, e tutto è ricondotto al volere di Dio. Non c’è spazio per teorie politiche di tipo democratico e, in effetti, la parola «democrazia» è solo un termine dotto, noto a pochi studiosi e pressoché sconosciuto al popolo, e così rimarrà fino alla rivoluzione francese. La monarchia e l’oligarchia non sono in discussione. Del resto, non si erano espresse in tal senso eminenti personalità del mondo antico, come Platone, Senofonte e lo stesso Aristotele? Da parte sua, la monarchia ha il pregio di adattarsi perfettamente alla metafisica cristiana, che vede nel re un rappresentante di Dio e nell’autorità regia il riflesso dell’autorità divina (“un solo Dio e un solo Re”). Non per caso essa è indicata come la forma migliore di governo anche da Tommaso d’Aquino: “il governo di uno solo è maggiormente in grado di avere successo di un governo di molti” (De Regimine Principum I, 2). Possiamo, dunque, concludere che “il periodo storico che va dall’antichità greca alle rivoluzioni settecentesche è contrassegnato dall’idea negativa di democrazia” (BONGIOVANNI, GOZZI, in BARBERA 1997: 215) e dalla prevalenza dell’ideologia monarchica, che si inserisce all’interno di una cultura di tipo feudale.

4.1. Il Feudalesimo
Si chiama feudalesimo il regime socio-politico che prevale in Europa, soprattutto dopo lo sfaldamento dell’impero carolingio, fra il IX e il XIII secolo, e che è caratterizzato dalla debolezza dei poteri centrali e dalla quasi scomparsa del grande commercio marittimo e dal predominio assoluto della proprietà terriera. L’Europa occidentale è flagellata dalle incursioni di ungari, normanni e saraceni, che approfittano della situazione favorevole. Non potendo contare su un’adeguata protezione da parte del sovrano e dovendo provvedere da sé alla propria sicurezza, ogni popolazione locale si sottomette ad un signore, che di solito è a capo di una banda armata, al quale affida l’organizzazione del territorio e la sua difesa. Assunto un ampio potere, il signore dà in affitto appezzamenti di terreno alle famiglie di coloni, ricevendone in cambio una parte del raccolto e corvè. La minaccia di un nemico esterno o la prospettiva di una conquista possono indurre diversi signori ad unirsi sotto un capo di livello superiore, in cambio di vantaggi di vario tipo: bottini, terre, privilegi. Quelle terre passano poi da padre in figlio e diventano un bene ereditario, che lega la famiglia beneficiaria al signore in un rapporto di vassallaggio, che è sancito da un giuramento. Entro il suo feudo, ogni vassallo è padrone assoluto, mentre il tipo di rapporto che si stabilisce con l’imperatore dipende dalla forza delle parti. Quando un imperatore è debole i vassalli si comportano da signori indipendenti e, quando un imperatore è forte, i vassalli tendono ad indebolirlo per guadagnare la propria indipendenza. Analogamente, quando un vassallo è forte, l’imperatore tende ad indebolirlo per poterlo agevolmente controllare, ma non così tanto da non sapersene che fare. L’ideale per un imperatore è quello di essere circondato da vassalli forti e fedeli, ma non tanto forti da poterlo insidiare. L’ideale per un vassallo è l’indipendenza. Da questo gioco di opposti interessi emerge la moltitudine di piccoli Stati semindipendenti, che hanno il loro simbolo nel castello, primo baluardo alle incursioni nemiche e valido strumento in risposta al bisogno di sicurezza della gente. I contadini liberi, non potendo difendere le loro terre, e nemmeno le loro vite, sono costretti a mettersi sotto la protezione di un signore, ed ecco perché i legami vassallatici aumentano, mentre gli allodi si fanno sempre più rari. Insomma, come osserva Le Goff, “la feudalità nasce per rispondere a un vuoto di potere” (2003: 118). È una questione di sopravvivenza.
Un’importante nota fuori dal coro è rappresentata dall’interessante fenomeno dei Comuni, che si verifica, principalmente in Italia a partire dall’XI-XII secolo, come risultato della volontà della gente del borgo di rendersi indipendente sia dal signore feudale che dall’imperatore e autogovernarsi in modo relativamente democratico, offrendo alle singole famiglie e alle singole persone la facoltà di intraprendere nuove attività lavorative e migliorare le proprie condizioni economiche. Il fatto che qualche borgata riesca in questo intento, viene visto da taluno come la dimostrazione che il potere non derivi da Dio, bensì dal popolo. Così, Marsilio da Padova potrà affermare che le leggi migliori “derivano dalla voce e dal volere della moltitudine”, mentre Brunetto Latini dirà che dei tre tipi possibili di governo (“uno retto dai re, il secondo da uomini di potere, il terzo dalla popolazione medesima”), quest’ultimo “è di gran lunga migliore degli altri” (SKINNER 1995: 90). Nei Comuni le singole famiglie possono intraprendere attività economiche e curare i propri affari con una certa libertà e si cominciano a diffondere le idee di partecipazione politica, di elezione e di rappresentanza, anche se non si giungerà mai a veri e propri modelli democratici stabili. Il potere politico viene esercitato dal popolo basso solo in rare occasioni e per brevissimi periodi, come a Roma, ai tempi di Arnaldo da Brescia (1145), o a Firenze, ai tempi del tumulto dei Ciompi (1378), mentre, di norma, esso è saldamente nelle mani delle famiglie più facoltose.

4.2. Il pensiero politico nel Trecento
La cultura feudale è favorevole ad una forma di governo monarchico di tipo assoluto e universale, che si incarna a perfezione nella figura dell’imperatore e del papa. Il problema è che queste due figure sono tra loro incompatibili e, di conseguenza, il conflitto diviene inevitabile e senza soluzione. Agli inizi del Trecento, nel corso di questa feroce lotta per il potere universale tra papa e imperatore, e proprio mentre queste due istituzioni appaiono in fase declinante e si vanno affermando gli Stati nazionali, viene elaborato un variegato pensiero politico, che copre ogni possibile alternativa. Il quesito a cui s’intende trovare una risposta è il seguente: a chi compete la sovranità?
Egidio Romano, che scrive intorno al 1300, ritiene che spetti al papa l’appellativo di signore assoluto del mondo per diritto divino.
Giovanni da Parigi, che scrive un paio di anni dopo, afferma che ogni potere deriva da Dio, tanto quello del re quanto quello del papa e che, pertanto, questi due poteri sono indipendenti ed entrambi sovrani.
Marsilio da Padova, che scrive nel 1324, ritiene invece che il potere sovrano spetti al re, il quale trae la propria legittimazione dalla volontà popolare e dal quale il potere religioso deriva; le leggi devono essere “scritte da «tutto il popolo o dalla sua parte più significativa» attraverso l’articolazione della sua volontà all’interno di una assemblea generale” (HELD 1997: 70), mentre i cittadini devono poter partecipare attivamente al governo della città, non necessariamente in modo diretto, bensì attraverso organi assembleari allargati, sul modello delle repubbliche comunali. Questa posizione è la peggiore per il papa, ed ecco perché Marsilio è avversato dalla Chiesa e bollato come rivoluzionario sovversivo e attentatore dell’ordine pubblico e dello statu quo.

4.3. Quattrocento
È in questo periodo che esplode la civiltà rinascimentale e si afferma quella nuova mentalità, che passerà alla storia col nome di Umanesimo e che capovolgerà il modo di pensare medievale. Come origine e come conseguenza di questo cambiamento c’è l’affermazione della borghesia, grazie alla quale diviene evidente che, grazie al lavoro e lo studio, chiunque può migliorare le proprie condizioni di vita e che non c’è alcun ruolo sociale predeterminato alla nascita per volere di Dio. Così, mentre nell’alto medioevo si riteneva che ciascuno avesse un posto fisso nella società, stabilito per legge divina, con l’umanesimo si comincia a rivolgere lo sguardo verso l’individuo, le sue potenzialità e le sue responsabilità, ed è questa la novità di maggior rilievo. Se nel medioevo l’individuo rimaneva sovrastato e nascosto in un ordine cosmico che culminava in Dio, per l’umanista l’individuo rappresenta il principale protagonista della storia, l’artefice del proprio destino, il centro e la misura di tutte le cose. L’umanista interpreta la fede in maniera intima e personale e rimane aperto alla tolleranza religiosa, contesta le affermazioni incomprensibili, o che vengono imposte dall’alto, e crede che debba essere il singolo uomo a ricercare la verità. Lo stesso Erasmo, benché sia sacerdote, attribuisce ai sacramenti un posto di secondo piano ed è contrario ad una religiosità dogmatica. È come se l’uomo cominciasse a vedere il mondo con occhi nuovi o da una nuova prospettiva, che lo spingono a tentare strade nuove, ad elevarsi ed esaltarsi in cerca di gloria e ricchezza.
L’accresciuta fiducia in se stessi fa sì che aumenta il numero di coloro che appaiono disposti ad indebitarsi pur di finanziare un proprio progetto, che può essere della più disparata tipologia, come l’apertura di una bottega artigiana, l’avviamento di un’attività commerciale e perfino l’armamento di una soldatesca o di una piccola flotta a scopi di pirateria. Sale, di conseguenza, la domanda di prestiti e, con essa, si va affermando la figura dell’usuraio e del banchiere, di quanti cioè lavorano facendo circolare danaro. Inizia così quella competizione fra individui, che fa numerose vittime, ma riesce a portare qualcuno alle stelle. Vi sono dei navigatori, che scoprono e conquistano nuove terre, dei pirati che incamerano sostanziosi bottini di guerra, dei commercianti che guadagnano patrimoni ragguardevoli e dei banchieri così facoltosi da poter finanziare le politiche di molti sovrani e pontefici. Alcuni di questi nuovi ricchi conquistano posti di potere e si elevano socialmente tanto da ottenere la concessione di titoli nobiliari.
Ritenendo il medioevo una fase storica primitiva e barbarica e un periodo da dimenticare, gli umanisti lo saltano a piè pari e ripartono dai classici greci e latini, nella convinzione che essi rappresentino il massimo livello culturale raggiunto dall’uomo. Nasce così la prima civiltà propriamente moderna, basata cioè non più su una visione religiosa della società, bensì su princìpi essenzialmente secolari e laici. In definitiva, l’umanesimo aspira ad essere la storia di individui, di uomini, di persone compiute e autonome, che costruiscono il proprio progetto di vita in piena libertà e responsabilità, anche se nella realtà esso rimarrà circoscritto ad una ristretta elite intellettuale e non diverrà mai un progetto politico compiuto e attuato. È su questo “individualismo”, per quanto limitato, che l’Europa costruisce il suo primato nel mondo (MOUSNIER 1953: 3-6).
Nell’animato dibattito rinascimentale sulle diverse forme di governo, la maggioranza dei consensi continua ad andare in direzione dell’impero universale e della monarchia assoluta, anche se non mancano segnali a favore della monarchia parlamentare, della repubblica e perfino di una qualche forma limitata di democrazia, come quella censitaria, nella convinzione che il sovrano da solo non è garanzia di buon governo e che può ben governare solo chi è adeguatamente preparato allo scopo. La democrazia popolare diretta occupa l’ultimo posto nelle preferenze, essendo opinione comune che il popolo sia intrinsecamente incapace di ben autogovernarsi e che, pertanto, ci sia bisogno della guida di una figura, cui delegare tutti i poteri.

5. Età moderna
5.1. Cinquecento
In campo politico, le teorie formulate nel XVI secolo in parte ricalcano e ribadiscono le posizioni medievali, in parte seguono le tendenze individualistiche della modernità.
Tra i maggiori rappresentanti della tradizione medievale va ricordato Jean Bodin (1530-1596). Secondo lo studioso, il re è il rappresentante di Dio sulla terra e l’unico uomo a non dipendere da altri; egli è tenuto a rispettare la legge di Dio (in ciò si distingue dal despota), che coincide con la legge naturale e con i fondamenti della religione, e deve rispondere solo a Dio. Il popolo non può far altro che sperare che Dio mandi re buoni e punisca quelli malvagi. Quella di Bodin rimarrà la dottrina prevalente in Europa fino alla Rivoluzione francese, allorché comincerà a diffondersi l’idea che il potere viene dal popolo.
A differenza di Bodin, che, in perfetta sintonia col pensiero ebraico-cristiano-medievale, ha dell’uomo una concezione sostanzialmente negativa, Etienne de la Boétie (1530-1563) si avvicina alle posizioni umanistiche, dichiarandosi disposto ad accordare credito all’uomo, seppur con qualche riserva. Egli afferma che l’uomo per sua stessa natura sarebbe libero e, se si lascia opprimere dalla forza del tiranno, è solo per debolezza, rinuncia e pigrizia. Afferma inoltre che il potere politico appartiene al popolo e che questo potrebbe riprenderselo solo che lo voglia: “la libertà è un fatto di volontà”. Di fatto, però, anche per Boétie, il potere deve essere esercitato dal re, il quale ha il dovere di governare in funzione e nell’interesse del popolo. Le differenze tra il pensiero di Bodin e quello di Boétie sono comunque una questione di sfumature: nella sostanza, entrambi vedono la monarchia come la migliore forma di governo e sperano in un re virtuoso e saggio, che si prenda cura del suo popolo come un buon padre di famiglia fa con i suoi figli.
Se Bodin e Boétie rimangono in linea col passato, lo stesso non si può dire per Niccolò Machiavelli (1469-1527), il quale, pur essendo di fede repubblicana e ritenendo quindi che, almeno in linea di principio, possa essere definito ideale quello Stato in cui le leggi sono più forti degli uomini e in cui i cittadini sono liberi perché sono sottomessi solo alle leggi, in realtà è disposto a tollerare il potere assoluto del principe, che ritiene funzionale al bene supremo dello Stato. Ed è proprio nel tentativo di suggerire al principe il miglior modo di fare politica, che Machiavelli elabora un pensiero, che rompe con la tradizione classico-medievale-umanistica del buon principe e apre un nuovo corso, fondato sulla separazione della politica dalla morale e sulla netta prevalenza degli interessi dello Stato su quelli dei singoli sudditi. Secondo Machiavelli, il comportamento morale deve rimanere confinato alla sfera privata e non si addice alle scelte politiche del principe, che devono invece obbedire alle imprescindibili esigenze dello Stato.
Tra i più importanti fattori di cambiamento del Cinquecento vanno ricordati la scoperta del Nuovo Mondo e lo sviluppo del capitalismo, che offrono a tutti almeno il sogno di potersi arricchire e di elevare il proprio status sociale, ma anche la Riforma protestante, che, riconoscendo ai fedeli la facoltà di leggere e interpretare soggettivamente le Sacre Scritture, conferisce una dignità assoluta alla persona e la investe di diritti inalienabili. Dall’insieme di questi fattori prende origine, soprattutto in Inghilterra, una nuova coscienza non solo da parte degli aristocratici, che vogliono abrogare il potere assoluto del re e chiedono una propria rappresentanza parlamentare, ma anche da parte di piccoli proprietari terrieri e ricchi borghesi, che ambiscono a sentirsi artefici del proprio destino e reclamano anche loro il diritto di essere rappresentati in parlamento. È il preludio alla svolta in senso liberal-democratico, che avverrà, come vedremo, sempre in Inghilterra, nel XVII secolo.

5.2. Seicento
L’opinione più comune nel Seicento è che gli interessi di uno Stato possano essere perseguiti solo con la forza e che la grandezza di una nazione dipenda dalla possibilità di finanziare una guerra e, dunque, dalla ricchezza: la ricchezza genererebbe la forza, e con la forza si potrebbe acquistare nuova ricchezza, e così via, in un processo senza fine. Se uno Stato volesse essere grande dovrebbe, dunque, arricchirsi e, poiché la ricchezza proviene principalmente dal commercio, ecco che gli interessi dei governanti vengono a coincidere con quelli dei mercanti e si traducono in affari e profitto. Da qui la politica mercantilista, che consiste in una serie di misure (dazi, agevolazioni fiscali, finanziamenti) adottate dallo Stato, allo scopo di sostenere le proprie industrie e favorire i monopoli nazionali, il cosiddetto protezionismo.
In campo politico, continuano a prevalere le ragioni dell’assolutismo, che sono sostenute da pensatori, come Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) e Sir Robert Filmer (1588-1653), i quali conservano, sostanzialmente, l’idea medievale di un potere che procede dall’alto verso il basso. Lo stesso fa Thomas Hobbes (1588-1679), ma in un modo diverso, in un’opera, Il Leviatano, composta in anni in cui l’Inghilterra è sconvolta dalla guerra civile. Al contrario di Aristotele, che vedeva nell’uomo un animale naturalmente socievole, per Hobbes, lo stato di natura è uno stato di guerra perpetua, dove ciascuno vive costantemente sotto la paura della morte, e l’intera specie umana è minacciata di autodistruzione. È per uscire da tale stato che, secondo lo studioso, gli uomini stipulano tra loro un contratto, “in base a cui trasferiscono ad un terzo il proprio potere sovrano naturale. “Questo terzo è, da parte sua, assolutamente estraneo al contratto col quale la moltitudine si è scambievolmente impegnata a suo favore. Nessun obbligo lo lega...” (CHEVALLIER 1968: 81). Nel «contratto» il filosofo vede l’unica soluzione dei problemi di convivenza fra gli uomini: meglio cedere la libertà che vivere nel pericolo incombente e nell’insicurezza. Hobbes merita di essere ricordato come il pensatore che, per la prima volta nella storia, è riuscito a concepire un assolutismo a partenza dal basso.
La teoria del Contratto rafforza l’idea che il potere politico emana dal popolo e, per conseguenza, conferisce al popolo stesso, almeno teoricamente, un certo rilievo politico. Mentre, dopo Hobbes, i politologi vanno elaborando le loro teorie contrattualiste, i grandi della terra tessono le loro strategie di potenza, che sono fatte anche di guerre e di paci. Particolarmente importante ai fini politici è la pace di Westfalia (1648), che registra l’orientamento a ridisegnare la geografia politica secondo l’ottica degli Stati nazionali, in cui la sovranità appartiene ai governanti e non al popolo, ma in cui il popolo comincia a prendere coscienza del proprio ruolo. Ciò avviene per la prima volta in Inghilterra, dove, fra il 1640 e il 1649, si vanno determinando condizioni socio-politiche tali da dare un certo potere al popolo e rendere possibile l’affermazione del movimento democratico dei Livellatori, su cui conviene indugiare.
Intanto il Nordamerica continua a richiamare coloni inglesi, che in quella terra cercano fortuna. Sono soprattutto personaggi scomodi, eretici o rivoluzionari, che lasciano, o sono costretti a lasciare, la madrepatria. Fra questi c’è una buona rappresentanza di puritani e quaccheri, che portano con sé le proprie idee rivoluzionarie e le applicano nella organizzazione politica dei loro villaggi, i quali, a somiglianza delle poleis greche, vengono amministrate col contributo di tutti i cittadini. Il seme dei Livellatori germoglia qui, soprattutto negli Stati in cui queste compagini sono maggiormente numerose, come il Rhode Island, dove nel 1663, Carlo II concede una Carta in cui è proclamata la libertà di coscienza, insieme a quella di religione, due diritti ancora non riconosciuti nella madrepatria, in cui il processo di democratizzazione è evidentemente più lento.

5.2.1. I Livellatori
In Gran Bretagna, invece, a seguito della Gloriosa Rivoluzione, si afferma la monarchia parlamentare (1689), che segna un primo passo in direzione della democrazia liberale. Il Triennal act del 1694 limita a tre anni la durata della legislatura e prescrive elezioni periodiche. In questo momento solo il 2% dei cittadini inglesi ha diritto al voto, e sono i cittadini più facoltosi, i cosiddetti borghesi, e soprattutto i proprietari. “La proprietà privata discrimina i cittadini, si pone come limite ai diritti. Il popolo viene surrettiziamente identificato con il popolo possidente: si dice che solo chi ha un interesse proprietario permanente ha un corrispondente interesse per il bene generale del Paese, come se il nullatenente non avesse un interesse ancora maggiore. S’instaura così la democrazia borghese, che esercita il potere politico attraverso il parlamento. La democrazia è calata nel parlamento. La sovranità popolare si esprime per «delega» e ha la sua sede istituzionale nel parlamento, che diviene lo strumento degli interessi della classe in ascesa” (SCHIAVONE 2001: 272). In sostanza, attraverso l’organo parlamentare, una minoranza della popolazione “si pone come interprete unilaterale dei bisogni globali del Paese” (SCHIAVONE 2001: 272). È di questo periodo la pubblicazione dei due Trattati sul governo (1690) da parte di John Locke, che segna una pietra miliare nel pensiero liberale.

John Locke (1632-1704) parte dalla posizione giusnaturalistica, secondo la quale, nello stato di natura, tutti gli uomini nascono liberi, uguali e indipendenti, e stanno abbastanza male da vedere le loro libertà e le loro proprietà mal garantite. Se preferiscono unirsi in società organizzata è per stare meglio ed essere più tutelati nei loro diritti. Dandosi un governo, tuttavia, gli uomini non rinunciano alla propria libertà originaria. Locke si oppone alla concezione assolutistica del potere fondata su un presunto volere divino. “E che! I sudditi dovrebbero sopportare tutto pazientemente, con il pretesto che i sovrani derivano immediatamente da Dio la loro autorità e che Dio solo ha diritto di chieder loro conto della loro condotta! Questa dottrina del diritto divino era un vero veleno della politica, era urgente trovarle un antidoto, un controveleno” (CHEVALLIER 1968: 121). Questo antidoto è il consenso. Ora, secondo lo studioso, non può esserci consenso nell’alienazione dei diritti personali a favore di uno solo. Locke non è contrario alla monarchia in sé, ma considera un errore la concentrazione dei due principali poteri politici (quello legislativo, che è supremo, e quello esecutivo) nella persona del re. Al contrario, egli sostiene che detti poteri vadano separati e ipotizza una struttura del potere legislativo composto da due assemblee (o parlamenti): una di «nobiltà ereditaria» e l’altra «per rappresentanti scelti pro tempore dal popolo». Quest’ultima dev’essere elettiva e frutto di un suffragio censitario, a tutela di un riconosciuto diritto ai proprietari di esprimere il proprio assenso in materia di tassazione. Il titolare del potere sovrano rimane il popolo, il quale conserva il diritto di detronizzare il re e scegliersene un altro.
Un’altra rilevante novità, che si afferma in campo politico nel Seicento, è rappresentata dal governo monarchico federale che si danno le sette province d’Olanda, dopo che sono riuscite ad ottenere l’indipendenza dalla Spagna (1579). Ciascuna provincia ha un proprio governatore, ma tutte sono unite sotto un re, che viene eletto tra i governatori. Questo evento è importante ai fini del successivo sviluppo del federalismo, di cui ci occuperemo più avanti.

5.3. Settecento
Il Settecento non solo il «secolo dei lumi» e delle rivoluzioni, ma anche il secolo in cui si gettano le fondamenta della democrazia dei moderni, ossia della DR. Se nel Seicento la patria del pensiero democratico è stata l’Inghilterra, ora la punta più avanzata in termini di democrazia è la Francia, che è la terra natale di due fra i più importanti contributi politici di questo periodo: Charles de Montesquieu (1689-1755) e Jean Jacques Rousseau (1712-78).
Nella sua opera più celebre, Lo spirito delle leggi, Montesquieu sostiene: primo, che non esiste una forma di governo valida in ogni caso, ma che ogni popolo deve scegliere il governo che più gli si adatta; secondo, che si possono scorgere in uno Stato non due poteri, come pensava Locke, ma tre: il potere di fare leggi (potere legislativo), quello di prendere decisioni (potere esecutivo) e quello di amministrare la giustizia (potere giudiziario); terzo, che questi poteri – come aveva suggerito Locke – non vanno esercitati da un’unica persona o un unico gruppo, ma tenuti separati, allo scopo di evitare eccessi di autorità. Più precisamente, il potere legislativo “verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo...” (XI, 6), ossia alle Camere parlamentari. “Il potere esecutivo dev’essere nelle mani d’un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi...” (XI, 6). Il potere giudiziario dev’essere composto da due parti distinte: i tribunali ordinari, per le vertenze della gente comune, e apposite giurie di nobili, per le vertenze fra nobili (XI, 6). Convinto che il popolo non disponga delle capacità necessarie per assumersi rilevanti responsabilità politiche e benché avverso ad ogni forma di dispotismo, Montesquieu vede nella monarchia una buona forma di governo e si adopera allo scopo di restituire alla monarchia francese il suo carattere di governo moderato, che avrebbe smarrito sotto il regno di Luigi XIV. Riguardo alla democrazia, Montesquieu, in linea con gli antichi greci, concepisce solo la forma diretta, che tuttavia ritiene essere una forma di governo adatta solo a piccole città e quindi da non prendere nemmeno in considerazione per un grande Stato. Nel complesso, il pensiero di Montesquieu non è distante da quello di Locke: entrambi sono dei liberali con tendenze aristocratiche e entrambi preferiscono la monarchia parlamentare.
Da parte sua, nel Contratto sociale, Rousseau non fa fatica ad accettare il principio giusnaturalista, secondo il quale gli uomini sono nati liberi e uguali, allo stesso modo in cui accetta l’idea del «contratto sociale», secondo cui, in origine gli uomini stabilirono tra di loro un accordo, in virtù del quale trasferirono il proprio potere ai governanti. Ma, a differenza di Hobbes e Locke, che, seppure a diverso titolo, ritenevano che il contratto trasferisse l’autorità dal popolo ai governanti, Rousseau lascia la sovranità al popolo e vede nei governanti dei semplici delegati, in ogni momento revocabili. “La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione stessa che non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa, ovvero è un’altra; non c’è via di mezzo” (III, 15). I cittadini devono essere nello stesso tempo governati e governanti: “Il popolo, sottomesso alle leggi, deve esserne lui l’autore” (II, 6). A questo punto, il Ginevrino dovrebbe, coerentemente, sostenere la causa della democrazia diretta, e invece no: nemmeno lui crede che tale tipo di governo possa proficuamente operare in grandi società. E allora? Allora, attraverso un giro di parole, egli finisce per appellarsi ad un concetto, per la verità assai equivoco e nebuloso, che lo dovrebbe tirar fuori dai pasticci, la “volontà generale”, che non è da confondere con la volontà della maggioranza. Lo Stato – dice – è il frutto di tale volontà, che è espressa dalla legge, e va governato in accordo ad essa. I cittadini, dunque, anche se, in teoria, conservano la propria fetta di sovranità, in pratica sono chiamati a sottomettersi incondizionatamente alla legge e a quella fantomatica volontà generale, che non è chiaro che cosa sia. E non è nemmeno chiaro a chi spetti il potere di fare le leggi. Se non alla maggioranza dei cittadini, a chi? A questo interrogativo Rousseau, purtroppo, non dà risposta.
È difficile descrivere con chiarezza il modello politico russoviano. Per certi versi, sembra trattarsi di una perfetta democrazia o, se preferiamo, di un individualismo pieno. Per il filosofo, infatti, tutti i cittadini devono godere della stessa libertà e nessuno deve essere tanto ricco da essere padrone di altri, né tanto povero da essere costretto a vendersi. La comunità politica democratica dev’essere piccola, sì che tutti i suoi membri si possano conoscere. La proprietà privata dev’essere diffusa all’intera popolazione, in modo tale che tutti possano partecipare alle decisioni di pubblico interesse. I funzionari dell’esecutivo vengono nominati tramite elezione diretta o a sorte. La partecipazione diretta dei cittadini alle pubbliche assemblee sta alla base delle leggi. Di norma, una legge dev’essere votata all’unanimità e, solo come ripiego, vale la regola di maggioranza. Insomma, anche se è rappresentato, il popolo rimane sovrano: l’opera di chi governa non ha alcun valore se non è ratificata direttamente dal popolo, se non è in sintonia con la volontà generale. Le donne, invece, devono dedicarsi ai lavori domestici, onde consentire agli uomini di occuparsi del lavoro retribuito e della politica. Le donne, dunque, sono escluse dalla cittadinanza e così pure, a quanto sembra, i poveri. In definitiva, dunque, la democrazia di Rousseau ha gli stessi limiti della democrazia ellenica.

5.3.1. Stati Uniti d’America
Mentre in terra francese si produce questo genere di pensiero, in America si respira un’aria tutta particolare. Fisicamente lontani dalla madrepatria, gli inglesi d’America, chiamiamoli pure «americani», si vedono costretti ad organizzarsi autonomamente e, poiché si vengono a trovare in una situazione simile a quella in cui si erano trovate le comunità monastiche nel medioevo, finiscono per ricorrere alla stessa soluzione: non potendo contare sulla presenza del re e non volendo combattersi fra loro per creare un altro re, si mettono d’accordo su una Costituzione e ricorrono al voto. Ma, per far questo, devono superare tradizioni consolidate e introdurre una nuova cultura. “Fino all’inizio del diciottesimo secolo quasi nessun autore, tra quelli di cui possediamo gli scritti, pensava che la democrazia fosse un modo desiderabile di organizzare la vita politica” (HELD 1997: 54). Ebbene, gli americani smentiscono questo luogo comune e trovano che la democrazia sia desiderabile.
Ci sono, però, sul campo un paio di problemi. Il primo è che, nel Settecento, continua ad essere diffusa l’opinione che la DD sia possibile solo in piccole città e che, pertanto, non possa avere un futuro in un’epoca in cui sembra possano sopravvivere solo i grandi Stati. Tale è la posizione di Montesquieu e soprattutto di Rousseau, secondo i quali la democrazia è solo di tipo diretto ed è attuabile solo in piccole comunità. Il secondo problema è che non sembra esserci spazio nemmeno per la DR, che viene considerata un non senso. “Poiché la democrazia coincideva con l’assemblea cittadina, l’idea stessa di una democrazia rappresentativa si configurava come una contraddizione in termini” (GREBLO 2004: 47). Anche a questo riguardo gli americani si fanno protagonisti di un importante cambiamento culturale, che, alla fine, renderà possibile, per la prima volta nella storia, l’affermazione di un sistema parlamentare, improntato alla democrazia rappresentativa o democrazia dei moderni, che è il risultato della combinazione di due fattori conflittuali, ossia una sorta di compromesso fra le istanze dell’individualismo borghese del Settecento e il rifiuto da parte dell’aristocrazia di accordare fiducia al popolo, sia pure inteso semplicemente come «molti».
Il fatto è che, in America, un numero crescente di persone cominciano a rigettare le supposte differenze di nascita e a rivendicare la propria visione del mondo, la propria idea di felicità, la propria libertà morale, in una parola, la propria sovranità. Molti americani non accettano di sentirsi ontologicamente inferiori (e nemmeno superiori) a qualunque altro, desiderano essere se stessi ed esigono il riconoscimento del diritto di vivere liberamente la loro vita. Nessuno accetterebbe il ruolo di suddito e tutti vorrebbero, in qualche modo, partecipare alle decisioni di pubblico interesse, ma questo rischia di generare una sorta di onnicrazia, ossia un autogoverno di «tutti» i cittadini, che partecipano dei diritti in condizioni paritarie. Quella che si profila, insomma, è una democrazia aperta al “potere degli individui presi uno per uno, di tutti gli individui che compongono una società” (BOBBIO 1990: 128).
Questo rischio è suffragato dalle teorie contrattualistiche e giusnaturalistiche, che, in questo momento, sono di moda. Il contrattualismo afferma che il potere politico proviene dal popolo. Il giusnaturalismo assume l’esistenza di un diritto naturale, ossia di alcuni diritti fondamentali (vita, libertà, sicurezza e proprietà), che sono antecedenti alla formazione di qualsiasi gruppo sociale e non dipendono dalla volontà umana, e, come tali, devono essere riconosciuti e tutelati dallo Stato. Insomma, ogni cittadino è accreditato di una sua dignità, che non dipende dallo Stato e che lo Stato è tenuto a rispettare, per esempio, rendendo partecipi tutti i cittadini del potere politico.
Questa nuova mentalità va maturando in un periodo (XVIII secolo) in cui esistono grandi Stati e, anche per tale ragione, è accolta con scetticismo dalla quasi totalità degli studiosi, i quali ritengono che sia materialmente impossibile, oltre che moralmente disdicevole, che tutti gli individui possano partecipare al potere politico. Nel Settecento, infatti, prevale un giudizio negativo sulla massa popolare, che, essendo fatta di gente umile, di non possidenti, braccianti agricoli e operai, si ritiene inadatta ad assumersi responsabilità politiche. Necker definisce il popolo come “la parte della nazione nata senza proprietà, da genitori all’incirca nelle stesse condizioni e che, non avendo potuto ricevere un’educazione, sono ridotti alle loro facoltà naturali, e non hanno altro possesso se non la loro forza o qualche mestiere rozzo e semplice. È la classe più numerosa della società e di conseguenza la più misera, poiché la sua sopravvivenza dipende unicamente dal suo lavoro giornaliero” (in MÉNY, SUREL 2001: 180-1). Il popolo, no; la classe borghese, sì. I politologi dell’epoca sono, tutt’al più, disposti a partecipare il potere politico alla classe borghese, la cosiddetta «Nazione», concedendole la facoltà di eleggere dei propri rappresentanti. Ed ecco il compromesso: partecipazione sì, ma attraverso la rappresentanza.

5.3.2. Dalla Rivoluzione americana …
È sotto questa temperie culturale che le colonie inglesi d’America iniziano una guerra contro la madrepatria (1775), che si conclude l’anno seguente con la Dichiarazione d’Indipendenza (1776), la quale decreta l’abbandono della monarchia ereditaria e la nascita di quella che è stata definita «la grande scoperta dei tempi moderni» (HELD 1997: 168), vale a dire la Repubblica democratica rappresentativa, ovverosia la progenitrice di tutte le future DR. Ma come si giunge esattamente all’istituzione di cariche pubbliche da assegnare mediante elezione popolare e fino a che punto si tratta di un governo democratico possiamo ricavarlo dall’eccellente libro di Gordon S. Wood, I figli della libertà, che val la pena di leggere integralmente.
Wood nota che, negli anni immediatamente precedenti alla Dichiarazione, i coloni inglesi si trovano a vivere in condizioni affatto particolari. Poco numerosi (circa un milione nel 1750), vivono raggruppati in piccoli villaggi, lontani dal re e privi di una chiesa ben strutturata e potente. Anche l’aristocrazia locale è debole rispetto all’omologa inglese e solo pochi sono “in grado di vivere senza far nulla” (WOOD 1996:153). I coloni possono però impostare le proprie vite e interpretare le proprie fedi religiose in modo relativamente libero, grazie alla vastità del territorio e alla disponibilità delle risorse, che sono tali da consentire il raddoppio della popolazione ogni venti anni (anche grazie al flusso di immigrati che continuano ad arrivare, non solo dall’Inghilterra, ma anche dall’Irlanda, dalla Scozia e dalle regioni germaniche). Pressoché tutti trovano un lavoro e quasi nessuno è veramente povero.
Priva di una classe aristocratica e di una chiesa potenti, priva di una massa di poveri e ricca di terre e risorse naturali, la società americana appare formata da famiglie laboriose, che pensano principalmente ai propri affari e non si sentono molto diverse l’una dall’altra, per quanto diversificati possano essere i loro redditi. In questa società invale il costume di praticare la compravendita delle merci con denaro contante, che prende il posto della vecchia consuetudine di acquistare a credito sulla base di garanzie patrimoniali, che favoriscono il ricco proprietario e penalizzano l’operaio. Ora, anche se il suo reddito non è paragonabile a quello di un gentiluomo, l’operaio ha la sensazione che le sue sterline valgano tanto quanto quelle del ricco, rispetto al quale non si sente da meno, ma anzi aspira a portarsi avanti e a ridurre il divario. Insomma, tutti i cittadini americani lavorano e, benché le differenze patrimoniali e reddituali siano consistenti e tendano ad aumentare, si sentono tutti una «classe media», non più una società duale divisa in una minoranza di aristocratici oziosi e una maggioranza di contadini e operai condannati ad un lavoro servile, ma una società omogenea, dove tutti lavorano e sono rispettati.
In America, all’epoca della Dichiarazione, sono due i modelli politici che si dividono il campo: la monarchia, che enfatizza le differenze fra le persone legate alla nascita, e la repubblica, che pone l’accento sulle virtù e sui meriti delle singole persone e delle loro famiglie, indipendentemente dalla nascita. La prima mette al primo posto la pace e l’ordine sociale, la seconda la libertà e l’indipendenza delle persone. Se il sistema monarchico rappresenta un modello classico, consolidato da una lunga e ininterrotta tradizione, il repubblicanesimo si presenta come una relativa novità, perché è stato meno praticato nel corso della storia ed è meno noto. Nel 1776, spezzando il cordone ombelicale che li teneva legati e sottomessi alla corona, gli americani riportano in auge il repubblicanesimo, portando “in superficie ciò che era sempre esistito” (ivi p. 148), ma che però viene chiamata «democrazia dei moderni» per distinguerla dalla «democrazia degli antichi», cioè dalla DD. Che si tratti di una formula politica del tutto diversa lo si può desumere dal fatto che Hamilton, il principale autore de Il Federalist, è un monarchico conservatore, che vuole un governo fondato sul dominio dei possidenti, mentre Madison, il secondo autore, considera la DD una forma di governo molto pericolosa. In seguito di dirà che l’essenza della nuova democrazia è la rappresentanza, ma la rappresentanza era già nota alle repubbliche del passato. In realtà, ciò che caratterizza la democrazia americana è “rappresentato dal fatto che quest’ultima esclude completamente il popolo nella sua capacità collettiva da una partecipazione diretta alla cosa pubblica, e non nel fatto che le prime escludessero completamente i rappresentanti del popolo dall’amministrazione” (HAMILTON, MADISON, JAY 1997: 532).
I leader repubblicani credono nell’esistenza di uomini «superiori» in qualità e virtù, ma non credono che questa superiorità si acquisisca solo per nascita. Secondo loro, “nessun uomo, per quanto di nobili natali, può conseguire alcuna dignità, se non l’ha conquistata per i suoi meriti personali” (WOOD 1996: 135). Insomma, solo chi può dimostrare di essersi portato avanti con le proprie capacità è degno del massimo rispetto, indipendentemente dai suoi natali. È questa la principale idea motrice della società americana alla fine del Settecento, che esistono persone superiori alle altre per istruzione, per patrimonio familiare e soprattutto per virtù, tanto da porsi come unico scopo il bene comune, per puro piacere e in modo del tutto disinteressato. Sono questi i candidati ritenuti adatti ad essere eletti per ricoprire cariche pubbliche, mentre il popolo è giudicato incapace di autogovernarsi e bisognoso di affidarsi a questi pochi uomini integerrimi e probi. Secondo Hamilton, il popolo è sì capace di discernimento morale, ma non è all’altezza di individuare e controllare i mezzi necessari al conseguimento del proprio bene, perciò è necessario che esso si affidi a dei rappresentanti (HAMILTON, MADISON, JAY 1997: 584).
Col passare degli anni, si scopre però che anche gli uomini migliori hanno un tornaconto da perseguire e, a tale scopo, non esitano a sfruttare la carica politica che ricoprono (WOOD 1996: 338-9). I repubblicani di vecchio stampo, come Benjamin Franklin, stentano a credere ai propri occhi: non avrebbero mai immaginato quello strano modello politico che sta nascendo e cercano di frenarne gli sviluppi, se non di invertirne il corso. Per loro è fondamentale che chi è eletto in parlamento debba poter dimostrare che non è entrato in politica per puro calcolo e rinunciare alla retribuzione (ivi p. 382). Ma non sono ascoltati, anche perché la classe media americana, ossia la maggioranza della popolazione, non è favorevole a riconoscere uomini «superiori», ma vuole avere voce in capitolo nelle questioni di pubblico interesse. Ogni americano si sente “un uomo d’affari” e ci tiene a dire la sua, mal sopportando le verità imposte dall’alto, come invece preferirebbero i vecchi federalisti repubblicani, che continuano a vedere nei rappresentanti politici una classe di uomini speciali, illuminati e saggi, capaci di esprimere verità oggettive e comunque superiori a quelle del volgo (ivi p. 472-7).
La conclusione è chiara: la DR non nasce dal desiderio di elevare il popolo al potere politico, ma dalla necessità di trovare un compromesso in grado di rispondere alla domanda che proviene dall’individualismo della classe media americana, senza però nulla concedere agli individui, cioè al popolo, in termini di partecipazione diretta al potere politico. Il paradosso della DR sta proprio qui, nel lasciar credere al popolo di essere titolare della sovranità, mentre, in realtà, il potere è esercitato da pochi. “Il popolo americano non scrive né approva le leggi, ma sceglie chi deve farlo al suo posto. Per questa ragione James Madison, uno dei compilatori della Costituzione, non considerava l’America una democrazia”, ma solo una Repubblica (ZAKARIA 2003: 214). In definitiva, quando i Padri fondatori scrivono la Costituzione non è alla democrazia che pensano, quanto piuttosto a prevenire in modo pacifico eventuali ribellioni dei contadini. Insomma, il testo costituzionale “era pur sempre un documento concepito da uomini ricchi, da mercanti, da proprietari di schiavi, che volevano sì un pizzico di democrazia politica, ma non avevano nessuna simpatia per la democrazia economica” (ZINN 2003: 228).

5.3.3. … alla Rivoluzione francese
La Rivoluzione francese non propone una nuova forma di democrazia, ma va piuttosto ricordata per aver ribaltato, almeno sul piano del principio, il modello politico tradizionale, che era centrato sui valori dell’autorità costituita, della religione gerarchica, della nobiltà per nascita e della cultura di stampo feudale, e di aver posto al centro dell’attenzione politica la persona individuale. Con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (26.8.1789), infatti, i rivoluzionari proclamano i diritti naturali dell’individuo (libertà, uguaglianza, sicurezza e proprietà), anche se, in fondo, il loro principale obiettivo non mira a fondare un governo popolare, quanto piuttosto ad elevare la borghesia a classe dominante. Lo stesso trasferimento della sovranità dal popolo al parlamento costituisce, nella sostanza, un modo per trasformare la borghesia da gruppo minoritario, qual è, a gruppo maggioritario. Il parlamento, infatti, è costituito prevalentemente da membri della borghesia e si trova a “gestire la totalità del potere in nome della totalità della popolazione, surrettiziamente” (SCHIAVONE 1997: 208). Anche se la Costituzione del 1791 estende il suffragio a quasi tutti i maschi (con l’eccezione dei servi, dei vagabondi e dei mendicanti) e l’esponente giacobino Robespierre giunge a vagheggiare un sistema DD, seppure intriso di elementi tratti dal liberalismo, tra cui la tutela del diritto di proprietà e della libertà economica, come traspare nella Convenzione del 1793, in realtà una vera democrazia partecipativa non viene mai attuata, né ai tempi della Rivoluzione né, tanto meno, negli anni seguenti, tant’è vero che la Costituzione del 1795 ripristina il suffragio censitario, che è basato sulla proprietà. Insomma, anche se afferma i diritti in termini universali, in realtà la Rivoluzione francese non fa seguire fatti coerenti alle proprie declamazioni e circoscrive i diritti al solo uomo possidente.
Accanto alla democrazia liberale, che si afferma, c’è un’altra democrazia, che non trova attuazione, ma è portatrice di una potente carica ideologica, evidentemente utopistica. È quella che Talmon chiama «democrazia totalitaria o messianica», che “si basa sull’asserzione di una sola e assoluta verità politica” (2000: 8). È la democrazia sociale di Morelly, Mably, Rousseau, Diderot e Helvétius, i quali auspicano una democrazia ad effettiva sovranità popolare, dove sia abolita la proprietà borghese e rafforzata la presenza dello Stato (TALMON 2000: 75). È la democrazia dei perdenti.

6. Età contemporanea
6.1. Ottocento
Tutto questo ribollire di idee rivoluzionarie, che soffiano in direzione della democrazia rappresentativa, subisce una frenata con Napoleone, nel cui Codice sono negati i diritti politici, e ancor di più dopo la caduta del grande Corso, quando vengono restaurate le vecchie monarchie. Se il pensiero rivoluzionario aveva privilegiato la difesa dell’individuo anche contro la possibile tirannia dello Stato e della famiglia, per Hegel, che farà scuola in tutto l’Ottocento, lo Stato diventa un valore assoluto e sommo e la famiglia è il “fondamento dello Stato”, e così come il re è l’autorità suprema dello Stato, allo stesso modo il padre è il capo indiscusso della famiglia. La superiorità del padre è stabilita dal Codice civile, che nell’art. 213 recita: “Il marito deve protezione alla moglie e la moglie obbedienza al marito”. Tutto ciò finisce per raggiungere lo stesso obiettivo che si erano prefissi i leader repubblicani: escludere dal potere i cittadini comuni e il popolo. Gli americani avevano supposto l’esistenza di uomini superiori, gli europei invece elevano il «gruppo» (sia esso lo Stato o la famiglia) al di sopra dell’individuo. La preponderanza della ragion di Stato rimane netta. Lo Stato è incommensurabilmente superiore al semplice cittadino. Dell’individualismo rivoluzionario rimane solo un ricordo negativo, il ricordo della dittatura giacobina, del governo disordinato e dissennato della plebaglia e del sovvertimento dei sacri valori della tradizione. Ma il vento della democrazia soffia ancora forte. Non è giusto, si va dicendo, che solo gli aristocratici siedano in parlamento a difesa dei propri interessi, ma è giusto che tutte le categorie dei lavoratori vi siano rappresentate. Questa domanda di democrazia prende corpo nella nuova tendenza dei sovrani di concedere ai cittadini più benestanti il diritto di eleggere dei propri rappresentanti. In Europa, la monarchia parlamentare pare, in questo momento, la migliore forma di governo politico, in quanto capace di coniugare le istanze rassicuranti della tradizione (governi autoritari) con quelle dell’individualismo borghese (governi rappresentativi). In America, invece, si va consolidando la Repubblica. In entrambi i casi si stabilisce che il cittadino possa esercitare il suo diritto di partecipare alla politica attraverso gli organi di rappresentanza, di cui il parlamento costituisce la massima espressione. Il parlamentarismo diventa sinonimo di modernità e di democrazia, e la sua bontà viene misurata col metro dei diritti riconosciuti ai cittadini, primo fra i quali il suffragio.
Dire «Nazione sovrana», agli inizi dell’Ottocento, significa che la classe possidente esercita il potere sovrano attraverso un parlamento eletto. Dal punto di vista strettamente numerico questa classe possidente corrisponde a circa il due per cento della popolazione totale, dunque, in una popolazione di venti milioni, a 400 mila soggetti: tanti, se paragonati alle poche famiglie dominanti delle oligarchie, ma non abbastanza da meritare l’appellativo di democrazia, nel senso di governo di «molti», e meno che meno «maggioranza». La democrazia del 2% è in realtà un’aristocrazia allargata. Non sono ancora maturi i tempi perché si possa allargare la cittadinanza a tutti. Kant, per esempio, riconosce al cittadino tre prerogative: la libertà da costrizioni esterne (ossia la facoltà di obbedire solo alle leggi alle quali egli abbia dato consenso), l’eguaglianza di fronte alla legge e l’indipendenza economica. In concreto, secondo il filosofo, non si può essere cittadini al di sotto di un certo censo.
Adesso non sono più gli uomini migliori che vanno a ricoprire le cariche governative, ma sono i rappresentanti eletti che diventavano i migliori proprio per il fatto di essere stati eletti. Questo capovolgimento di valori getta nello sconforto i vecchi federalisti che ancora sono in vita, come Jefferson (1743-1826), che hanno sognato una repubblica aristocratica e ora si trovano di fronte una democrazia di bassa lega, dove tutti sono uguali, tutti lavorano e pensano ai propri affari. “Quella società democratica non era la società che i dirigenti rivoluzionari avevano sognato o preconizzato” (ivi p. 481). Ma questa è la democrazia creata dagli americani, una società fatta di persone comuni, che desiderano conseguire il proprio benessere economico. “Tutti erano uguali, gente comune rappresentata nel miglior modo da altra gente comune: questa era la democrazia” (ivi p. 387).
Intanto l’America cresce e, nel 1820, dopo meno di mezzo secolo dalla Dichiarazione, raddoppia la sua estensione territoriale e i tredici Stati diventano ventidue, con oltre nove milioni e mezzo di abitanti; la maggioranza dei cittadini abita in campagna, mentre solo 61 centri urbani superano i 2500 abitanti, di cui solo 5 ne hanno più di 25.000 (ivi p. 407-410). Sono piccole comunità e, in quanto tali, forse potrebbero anche realizzare una forma di DD, ma, scoraggiati anche dal fatto che questa forma di governo è da quasi tutti ritenuta impossibile, giungono alla conclusione che farsi rappresentare è un’eccellente soluzione, purché venga riconosciuto il suffragio universale maschile (all’epoca il suffragio esteso alle donne era semplicemente impensabile), cosa che, in effetti, avviene (1821), il che costituisce una novità assoluta nella storia dell’uomo.
Ormai l’ideale repubblicano dell’uomo «superiore» è tramontato e si va affermando la figura del rappresentante di professione, che vive di politica. Si creano così le premesse per la nascita dei partiti politici di massa, che, negli anni venti del XIX secolo, costituiscono già una realtà. Da questo momento, il modello DR può dirsi compiuto, essendo già delineate le sue caratteristiche istituzioni, quali il parlamento, i partiti e il sistema elettorale.
Così congegnata, la DR compie una sorta di magia, che consiste nel riconoscere a tutti i cittadini adulti di sesso maschile il diritto di esprimere una preferenza di voto e, contemporaneamente, escluderli da un’effettiva partecipazione alla politica. Infatti, quando il signor Caio appone il segno di una croce sul simbolo di un partito stampato su una scheda, egli sta semplicemente trasferendo la sua libertà a qualcun altro che lo dovrà rappresentare e il suo gesto è una classica operazione di abdicazione ai propri diritti, in virtù della quale quel cittadino rinuncia a partecipare attivamente nelle decisioni in merito a questioni di interesse generale. Insomma, il cittadino partecipa senza partecipare: questo è il paradosso del voto. Ciò avvalora la tesi sostenuta da Albert O. Hirschman, il quale afferma che il suffragio universale non è tanto una conquista democratica, quanto una concessione da parte della classe dominante al popolo, allo scopo di tenerlo buono ed evitare la sua sollevazione violenta, uno strumento per evitare nuove rivoluzioni, attraverso la circoscrizione dell’azione politica popolare “entro una forma particolare e relativamente innocua” (HIRSCHMAN 2003: 145).
Questo processo di democratizzazione giunge a compimento sotto la presidenza di Andrew Jackson (1829-37), con la creazione di un solido apparato burocratico e la diffusione dei partiti di massa. Ora il vecchio cliché del gentiluomo repubblicano ricco e virtuoso, che non lavora per interesse, è definitivamente superato: quel gentiluomo è solo un ozioso (ivi p. 364). Adesso è apprezzato chi lavora e guadagna, chi si porta avanti nella vita grazie alle sue capacità e ai suoi meriti, il self-made man. Certo, più uno guadagna e più si eleva la sua reputazione sociale, ma, dal momento che tutti svolgono un lavoro retribuito, almeno sotto questo aspetto, si sentono uguali (ivi p. 376).
In Europa, la democrazia assume, come abbiamo detto, la forma della monarchia parlamentare, con suffragio limitato ai cittadini possidenti, ai quali è riconosciuta libertà e uguaglianza di fronte alla legge. Ebbene, questa democrazia si va affermando come un prodotto dell’individualismo ottocentesco, in quanto tende ad identificare l’individuo col cittadino e il cittadino con l’individuo, mentre, nello stesso tempo, il popolo si riduce ad una figura prevalentemente retorica e ambigua. Benjamin Constant (1767-1836) parla orgogliosamente di “libertà dei moderni”, ma, per il momento, è una libertà di pochi. Le masse rimangono escluse. Da questo momento inizia il doloroso cammino degli esclusi, che chiederanno di essere rappresentati anche loro, ottenendo infine, a costo di dure lotte, il progressivo allargamento del suffragio.
Nel 1831 Alexis de Tocqueville visita gli Usa e, qualche anno dopo (1835-40), pubblica il celeberrimo La democrazia in America, dove descrive quel nuovo modello politico, che in parte elogia e in parte critica. In particolare, lo studioso ritiene che il popolo non sia in grado di autogovernarsi, in quanto privo del tempo e delle capacità necessari allo scopo: solo gli aristocratici dispongono dell’uno e delle altre, e solo loro possono essere gli attori della democrazia. La sua democrazia è non solo rappresentativa, ma anche di tipo elitario e legata al censo. Questa sarà l’opinione prevalente in Europa per quasi l’intero XIX secolo.
Il primo paese europeo a riconoscere il suffragio universale maschile è la Francia (1848). Gli altri Stati «democratici» adottano un suffragio rigorosamente censitario. Tale è il caso della Gran Bretagna, dove la riforma elettorale del 1832 porta la percentuale degli aventi diritto al voto al 5%, mentre le donne rimangono escluse dai diritti politici. Ma qualcuno continua a sognare la DD, e così, nel corso della guerra franco-prussiana (1870-1), i cittadini di Parigi istituiscono un autogoverno municipale (la cosiddetta Comune). Il fatto che il sogno degli insorti è di breve durata e si conclude, dopo circa due mesi, in un bagno di sangue, dimostra che non sono maturi i tempi per questa forma di democrazia.
Fra i personaggi maggiormente rappresentativi del pensiero democratico in questo scorcio di tempo meritano di essere ricordati John Stuart Mill e Karl Marx, in cui possiamo vedere due simboli, rispettivamente, della democrazia liberale e di quella sociale, i due modelli politici che domineranno la scena mondiale nel XX secolo.
Per Mill (1806-73), la felicità è il fine ultimo della vita e ciascun individuo dev’essere lasciato libero di perseguirla a modo suo, con l’unico limite di non interferire con la libertà degli altri. Ciò significa massima libertà dei cittadini nella loro vita privata e «Stato minimo». Qualsiasi sistema politico che non dia a ciascuno la possibilità di essere artefice del proprio destino o di esprimersi in conformità della propria natura umana, è da rigettare (GINSBORG 2006: 54). Mill è sicuramente un uomo di profonda fede democratica. Tuttavia, partendo dal postulato che il modello della polis non possa essere applicato nei grandi Stati moderni, sostiene cioè che “il governo rappresentativo costituisce il tipo ideale di governo [possibile]” (MILL 1997a: 60). La sovranità appartiene al popolo, certo, ma esso può esercitarla solo attraverso i suoi rappresentanti. Il voto è segreto e deve avere un valore «proporzionale», deve cioè avere un peso sociale diverso da elettore a elettore, secondo i meriti personali. Mill, infatti, pur essendo incline a concedere a tutti uguaglianza di opportunità, diffida dell’egualitarismo assoluto. In concreto, la società milliana dev’essere governata da rappresentanti eletti a suffragio universale (maschile e femminile), con poche eccezioni (gli analfabeti, gli assistiti dal comune), ma devono valere di più i voti dei migliori, sia in quanto a ricchezza che, soprattutto, in quanto a intelligenza e cultura. Rimane parzialmente insoluta la questione femminile, perché, se da un lato Mill proclama l’emancipazione politica delle donne, di fatto non spiega come questa emancipazione possa conciliarsi con la tradizionale divisione del lavoro domestico.
Marx (1818-1883) delinea un modello di società alternativo a quello capitalistico, ma è con una certa forzatura che possiamo annoverare il filosofo tedesco fra i pensatori democratici, sia perché la dottrina marxiana “nasconde abbastanza ambiguità da permettere molte interpretazioni” (ATTALI 2008: 273), sia perché “Marx non ha nessuna ricetta di governo” (ivi, p. 396). Secondo Marx, solo l’uguaglianza può garantire le condizioni per la realizzazione delle potenzialità di tutti gli esseri umani, in modo che «ogni uomo o donna possa dare» secondo le proprie capacità e «ricevere ciò di cui ha bisogno». Gli affari pubblici dovranno essere governati da tutta la collettività, le cariche pubbliche dovranno essere assegnate per elezione o rotazione, i funzionari pubblici dovranno percepire stipendi non superiori ai salari dei lavoratori. Dovranno altresì scomparire le divisioni di classe e i relativi privilegi, come pure il possesso privato dei mezzi di produzione, la logica di mercato e l’eccessiva ricchezza e povertà, in modo che a tutti sia consentito un margine di tempo libero da dedicare allo sviluppo della propria umanità. Per questa via, si giungerà, secondo Marx, alla progressiva integrazione tra Stato e società, cioè alla fine dello Stato e delle classi.
Un evento importante ai fini del processo democratico è il congresso di Erfurt (1890), nel quale il Partito operaio socialdemocratico tedesco elabora un Programma, che resterà a lungo un punto di riferimento per le sinistre in Europa. Il programma prevede un articolato piano di riforme democratiche, i cui punti salienti sono la trasformazione della proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà sociale, il suffragio universale con votazione segreta per tutti i cittadini superiori a vent’anni e senza differenza di sesso, l’istituzione del referendum di proposta e di rigetto, la libertà di parola e di associazione, la dichiarazione della religione come questione privata, l’istituzione di una scuola obbligatoria e gratuita, la gratuità dell’amministrazione della giustizia e delle prestazioni mediche, giudici eletti dal popolo, l’abolizione della pena di morte, la riduzione della giornata lavorativa a otto ore con diritto al riposo settimanale, il divieto del lavoro per i minori, la sicurezza degli impianti, un sistema di previdenza sociale, tasse progressive sul reddito e sulla proprietà. Nello stesso tempo, vanno nascendo i partiti, che sono vere e proprie macchine atte a rappresentare gli interessi delle principali forze sociali e ad orientare il consenso delle masse. Da questo momento l’impianto di una DR di tipo sociale è ben delineato e solido.

6.2. Novecento
Introdotto, nell’ordine, in Nuova Zelanda (1893), Australia (1902), Finlandia (1906), Norvegia (1913), Danimarca (1915), Inghilterra e Canada (1918), Austria e Germania (1919), USA e Belgio (1920), Svezia (1921), URSS (1936), Francia (1945), Italia (1946) e Svizzera (1971), il suffragio universale trasforma la democrazia da elitaria a popolare e può, almeno secondo Bobbio, essere considerato il principale elemento di democraticità delle moderne DR: “ciò che caratterizza un sistema politico democratico non è il principio di maggioranza ma il suffragio universale” (1999: 390). Coerentemente col riconoscimento del suffragio universale, si dovrebbe pensare che la democrazia “riposa sulla sovranità non del popolo ma dei cittadini” (BOBBIO 1990: 129). In realtà, essa rimane nell’immaginario collettivo «governo del popolo» e risente di tutte le conseguenze legate alla vaghezza di questa definizione. Sia pure con questi limiti, il pensiero DR costituisce una realtà consolidata e prosegue il suo cammino, che registra, nella seconda decade del XX secolo, in Australia e in Nuova Zelanda, la nascita dei primi governi democratico-repubblicani dopo quello ormai storico degli Usa.
La DD invece continua a rimanere nell’oblio più profondo. Di essa non si parla, anche se, al suo indirizzo, si muovono alcuni eventi, tra cui l’affermazione di nuove branche scientifiche, come la psicologia e la psicanalisi, che attribuiscono grande valore all’individuo. Si ritorna così a parlare non solo di diritti fondamentali della persona, ma anche dei diritti concreti dei bambini (istruzione obbligatoria di massa, divieto dello sfruttamento minorile), delle donne (parità di diritti), degli operai (diritto al lavoro, coperture assicurative, associazioni sindacali), e via dicendo. Ma si tratta di eventi che, solo indirettamente, reclamano una democrazia più comprensiva e partecipativa.
Un momento topico nella storia della DD è rappresentato dalla Rivoluzione russa (1917), che, proclamando la dittatura del proletariato (ossia delle masse operaie, che nell’immaginario collettivo vengono identificate col popolo tout court), sembra riproporre, in grande, il vecchio sogno della Comune di Parigi, quello di realizzare un sistema democratico popolare. Il comunismo, come viene chiamato il modello proposto dai rivoluzionari, si trova a doversi confrontare con la democrazia borghese dei paesi capitalisti, che, come abbiamo visto, è centrata sulle classi possidenti e sul censo.
Dopo la seconda guerra mondiale, comunismo e democrazia liberale mettono radici praticamente in tutto il mondo, con prevalenza, il primo nell’Est europeo e in Cina, la seconda nell’area nord-atlantica e in alcune ex-colonie europee, dando vita ad un confronto aspro e strisciante, la cosiddetta «guerra fredda», che trova il suo epilogo dopo pochi decenni, quando il comunismo, che non ha mai realmente affidato il potere alle masse, disattendendo così clamorosamente le idee dei fondatori, crolla per implosione (1989), lasciando campo libero al modello DR, che rimane, in pratica, l’unica forza valida sul campo, priva ormai di concorrenti. Ma qual è il senso di questa svolta epocale e come ne esce la democrazia?
In realtà, benché fondato sulla «dittatura del proletariato», il modello comunista ha ben poco di democratico, essendo imposto dall’alto “da una piccolissima élite dittatoriale” (SARTORI 2008: 64). Il principale limite dei teorici comunisti è che nella loro idea di popolo c’è posto solo per il proletariato. Sotto questo aspetto, comunismo e liberalismo si collocano sullo stesso piano: entrambi includono una parte della popolazione e ne escludono un’altra. Per i comunisti contano solo i proletari, per i liberali solo i borghesi. Per nessuno dei due sistemi conta, almeno a livello nazionale, l’individuo in sé.
Oggi la DR, nelle sue varianti liberale e socialista, è diffusa a livello planetario e, anche se essa è ritenuta stabile e consolidata solo in una ventina di paesi, che hanno in comune il fatto di essere economicamente sviluppati e di appartenere, con l’eccezione del Giappone e dell’India, all’area culturale giudeo-cristiana, è considerata “l’esperanto morale dell’attuale sistema degli stati-nazione, la lingua in cui tutte le Nazioni sono davvero Unite, il gergo ufficiale del mondo moderno” (DUNN 1983: 13). Oggi tendiamo a rigettare l’autocrazia, che ha dominato per millenni la nostra storia, e osanniamo la democrazia è perché vogliamo essere persone libere, soggetti morali e individui sovrani. “La giustificazione della democrazia, ovvero la principale ragione che ci consente di difendere la democrazia come la migliore forma di governo, o la meno cattiva, sta proprio nel presupposto che l’individuo singolo, l’individuo come persona morale e razionale, sia il miglior giudice del proprio interesse” (BOBBIO 1999: 378). La democrazia attrae una parte della gente, anche perché si crede che essa comporti numerosi e sostanziali vantaggi: ostacola la tirannia e i governi dispotici, garantisce ai cittadini molti diritti, primi fra tutti quelli inerenti le libertà personali, civili e politiche, consente a ciascuno di poter vivere sotto leggi uguali per tutti, favorisce condizioni di uguaglianza, realizza pace e prosperità, promuove l’individuo e ne tutela la dignità più di ogni altro sistema politico.
Già dipinta, nell’Ottocento, come “il tipo ideale di governo [possibile]” (MILL 1997a: 60), oggi la DR è rimasta senza rivali e senza alternative, e ciò è considerata una conferma della sua validità. Secondo Hans Kelsen, essa è “l’unica forma reale possibile dell’idea di democrazia” (1995: 74). Un po’ più articolato è il seguente giudizio di Antonio Baldassarre: “Quando io parlo di democrazia, parlo sempre di democrazia liberale, non parlo di altre forme di democrazia, di cui si può discutere, ma che nella realtà dei paesi democratici non si sono avverate e, probabilmente, non potranno mai avverarsi. Sinceramente, mi sentirei in difficoltà nell’ipotizzare l’avverarsi di una democrazia alla Rousseau in un paese moderno; direi, anzi, che è molto difficile che un’idea di quel tipo possa realizzarsi” (2002: 12). Barbera parla di “definitivo abbandono delle suggestioni di democrazia diretta” (1999: 101). Il messaggio è il seguente: non solo la DD è impossibile da realizzare dal punto di vista tecnico; essa non è nemmeno desiderabile sul piano etico, dove è nettamente superata dalla DR, che rappresenta la migliore forma di governo possibile. Come dire che, anche se un angelo rimuovesse ogni difficoltà tecnica, in ogni caso, la DD resterebbe una pura utopia e, inevitabilmente, tenderebbe a trasformarsi in plutocrazia, perché gli elettori sono incapaci di formulare giudizi critici ragionevoli sulle questioni politiche. Si esclude quindi a priori che la democrazia possa consistere in una conquista interiore della persona, ma si tende a ridurla a semplice procedura. Nessuna meraviglia, dunque, se Bush abbia tentato di esportarla in Medio Oriente, ad ogni costo, perfino con la forza, anche se, così facendo, il Presidente americano ha dimostrato di confondere la democrazia, come conquista interiore della persona, che non può essere imposta con la forza, con la democrazia come semplice procedura.
Le conseguenze di questo atteggiamento culturale sono note: una pietra tombale sulla DD e l’apoteosi di questa nuova forma di democrazia, del tutto sconosciuta in passato, ossia la DR, o democrazia dei moderni. Tuttavia, nonostante che la DR venga considerata la migliore forma di governo possibile, almeno a livello nazionale, da più parti si levano voci critiche in relazioni al fatto, per esempio, che, essendo stata concepita all’epoca dello Stato-nazione, essa non sembra essere in grado di rispondere adeguatamente alle sfide della globalizzazione e richiede un’adeguata riprogettazione per poter rispondere alle esigenze del mercato globale, che oggi appaiono ineludibili. Dahrendorf non esita a parlare di “profonda crisi della democrazia” (2001: 4), anche se ciò non significa che egli rinneghi l’attuale sistema democratico per qualcosa di meglio. “Dopo la democrazia, noi dobbiamo e possiamo costruire una nuova democrazia” (DAHRENDORF 2001: 130).
Per quanti credono che la democrazia dev’essere riformulata, rinnovata, ripensata, la DD può essere un modello da prendere in considerazione. Nel corso della storia l’uomo ne ha sentito il bisogno, anche se non è stato capace di attuarla in modo pieno e soddisfacente, e oggi forse esistono le condizioni tecniche, oltre che le esigenze politiche, favorevoli ad un suo ritorno.